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LEZIONI DI LETTERATURA ITALIANA - ANNO ACCADEMICO 1906-1907
me lo acconsentono) che esisteva in latino anche la prima pronuncia (comune
o parlata), dunque se un latino tornasse, per miracolo, a sentire
un’ode del Carducci non la chiamerebbe barbara, direbbe subito – questo è un
arcaico. – Perciò chiamo mal volentieri odi barbare, ma obbedisco: bisognereb-
be chiamarle odi classiche; ma siccome i metri classici sono molti, si
possono chiamare: odi metro-carducciane
Dinanzi alle Terme di Caracalla
Corron tra ‘l Celio fòsche e l’ Aventino Se ti fûr cari i grandi occhi piangenti
le nubi; il vento dal pian tristo move e de le madri le protese braccia
umido: in fondo stanno i monti albani te deprecanti, o dea, da ’l reclinato
bianchi di neve. capo de i figli:
A le cineree trecce alzato il velo Se ti fu cara su ‘l Palagio eccelso
verde, nel libro una britanna cerca l’ara vetusta (ancor lambiva il Tebro
queste minacce di romane mura l’evandrio colle, e veleggiando a sera
al cielo e al tempo. tra ’l Campidoglio
Continui, densi, neri, cracidanti e l’Aventino il reduce quirite
versansi i corvi come fluttuando guardava in alto la città quadrata
contro i due muri ch’a più ardua sfida Dal sole arrisa, e mormorava un lento
levansi enormi. saturnio carme);
“Vecchi giganti, – par che insista irato Febbre, m'ascolta. Gli uomini novelli
l’augure stormo – a che tentate il cielo?,, quinci respingi a lor picciole cose:
Grave per l’aure vien da Laterano religïoso è questo orror: la dea
suon di campane. Roma qui dorme.
Ed un ciociaro, nel mantello avvolto, Poggiato il capo al Palatino augusto,
grave fischiando tra la folta barba, tra l’ Celio aperte e l’Aventin le braccia,
passa e non guarda. Febbre, io qui t’invoco, per la Capena i forti òmeri stende
nume presente. a l’ Appia via. (pag. 795)
È una poesia in metro saffico, il quale, secondo noi italiani, è quello che riesce
meglio. Pare strano, ma il Mommsen, che tradusse una di queste odi barbare, disse
che è quello che riesce meno.
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