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LEZIONI  DI  LETTERATURA ITALIANA - ANNO ACCADEMICO 1906-1907



                       I commenti alla poesia non ci dovrebbero essere, ma siamo in una scuola,
                    non siamo in un tempio, ci vorrebbe un tempio per la poesia e io penso
                    sempre che cosa doveva essere, per esempio, la Divina Commedia letta in
                    S. Maria del Fiore! Ho detto che questo è il punto centrale della
                    poesia carducciana e che egli aveva già fatto le odi barbare, aveva tro-
                    vata la sua espressione, l’espressione vera e genuina del suo sentimen-
                    to poetico, e torna alle rime; però c’è nella forma qualche cosa di clas-
                    sico, di antico, si vede che il suo pensiero era sempre nei grandi movimenti
                    dell’arte poetica greca e latina. La grecità della forma in questa poe-
                    sia così moderna che finisce col bicchiere offerto al cittadino Mastai, è
                    nella triade del metro. La poesia lirica corale dei Greci, quella di Pin-
                    daro, ha una  strofa, un’antistrofe e un  epòdo, che i cinquecentisti,
                    il Chiabrera fu il primo, tradussero per ballata, controballata e stanza.
                          a
                    Nella 1  è un movimento del coro a destra, nella 2ª un movimento, uguale di
                    spazio, di ritorno all’incontrario del primo e finalmente una chiusa. Queste
                    tre parti nelle singole stanze di questa poesia sublime sono date
                    da una quartina rimata con rime piane e alternate, da una seconda
                    quartina tale e quale la prima (strofe e antistrofe), da una terza quar-
                    tina (epòdo) differente dalle altre due solo pel fatto d’avere una rima tronca.
                    Più ancora di grecità, che in questa semplice forma, è nell’ampiezza del
                    periodo che si è visto colla lunga enumerazione (dalla 16ª quartina alla 23ª).
                    E ora leggeremo un’ode barbara. Io dico mal volentieri ode barbara,
                    ma lo dico perché le ha intitolate il poeta stesso a questo modo perché, disse,
                    tali suonerebbero all’orecchie degli antichi latini se tornassero, per un
                    miracolo, a sentirle. Con buona pace del Maestro, nemmeno i Latini le
                    avrebbero chiamate barbare. In realtà ci sono stati fra i Latini pochi che
                    hanno misurato i versi al modo di G. Carducci e sempre la strofa
                    latina, a mio parere, suonava secondo l’intensità e la volontà del poe-
                    ta latino: suonava come suonavano le odi barbare di G. Carducci op-
                    pure facendo sentire la ripercussione del ritmo. Sebbene non tutti
                    loro conoscano il latino, tuttavia dirò una strofa latina.
                    – Coelo tonantem – dice Carducci nel Canto dell' Amore; è il principio di
                    un canto d’Orazio – Coelo tonantem credidimus Jovem –
                    (Il Pascoli legge questo verso prima colla pronuncia comune nei latini, la pronuncia, egli
                    dice, parlata; poi in altro modo, non troppo differente del primo, declamandolo, facendo sen-
                    tire speciali accenti anche sull’ultima sillaba del verso). Ora io affermo (non tutti

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