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LEZIONI  DI  LETTERATURA ITALIANA - ANNO ACCADEMICO 1906-1907



                    go della loro purificazione, benché ammetta che certuni non torne-
                    ranno più in vita e staranno sempre nel Tartaro dove soffriranno eter-
                    namente. Non è assurdo pensare che Dante sia stato ispirato a prendere
                    da Virgilio, oltre il Caron, anche il concetto dell’angelo perché trovia-
                    mo in Virgilio che Caron era destinato a tragittare le anime, che anda-
                    vano di lì a purificarsi.
                    In questi due Canti dell’Inferno e del Purgatorio, Dante raffigura la
                    morte: la morte in ira e la morte in grazia.
                          «Una porta è, senza serrame. (Inf. VIII – 125 seg.) Dopo la por-
                    ta un grande spazio dove l’aria è tinta e il lume è fioco. (Inf. III – 29
                    e 75) Quello spazio, che digrada, ha per limite una riviera: un fiume
                    grande, da parer palude con acqua limacciosa e opaca. Una nave s’ap-
                    pressa per lo stagno livido. Fiammeggiano da essa, come uniche scintille
                    in tutta questa opacità d’acqua e d’aria, due occhi di bragia. Sono d’un
                    nocchiero vecchissimo. (Inf. III passim.) A ogni momento nella ripa
                    s’affolta gente. Il nocchiero appressa la barca, gridando parole d’eter-
                    na sanzione. Nella gente, cioè tra le anime, sorge uno strepito di denti
                    e di bestemmie e di pianto. E s’avanzano in quel barlume verso la rivie-
                    ra e verso i due occhi di fuoco. Formano quasi un grappolo, un ramo,
                    un albero. Da esso si staccano a una a una le anime, foglie che appena si
                    tengano al ramo per il picciuolo mortificato, cui assalgono i primi venti
                    freddi dell’autunno. Guardando verso la palude, si scorge però che non
                    si staccano da sé, ma via via per cenni del demonio barcaiuolo. E allora
                    non sembra più quello lo sfogliarsi e il mondarsi d’un ramo. Quel for-
                    micolìo d’anime sembra uno stormo di uccelli, dei quali ognuno, l’un
                    dopo l’altro, si butti a terra per il richiamo di quell’orribile uccellatore.
                    La nave s’allontana su per l’acqua opaca e nera. Non è di là quella nave,
                    né sono ancora discese quelle anime, che di qua s’affolta nuova gente e
                    la barca ritorna, e suonano le grida di quel dimonio, si vedono nell’o-
                    scurità quei due occhi simili a carboni accesi che ruotino, e si forma di
                    nuovo quell’albero di foglie caduche, e di nuovo si monda. Così Dante
                    ha veduto la morte: (non posso indugiarmi in confronti con Virgilio;
                    ed è superfluo ammonire che Dante spiritualizza tutte le circostanze
                    virgiliane) la morte di quelli che muoiono nell’ira di Dio.» (G. Pascoli:
                    - Sotto il Velame – cap. Il vestibolo e il limbo – pagg. 59, 60)
                          Difatti  nel verso 70  e seguenti,  fino  alla  fine del
                    cap. 3° dell’Inferno: «E poi che a riguardar oltre mi diedi, etc. »
                    ha rappresentato la morte, e sanno che ogni momento
                    ne muor tanti, e à [ha] espresso anche in sé questa medesima
                    morte, e questa è cosa che loro vedranno continuando a leg-

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