Page 114 - Lezioni di Letteratura Italiana
P. 114

LEZIONI  DI  LETTERATURA ITALIANA - ANNO ACCADEMICO 1906-1907



                    Ora risponde a Bonagiunta: « ... « Io mi sono un ... etc ...» L’espressio-
                    ne non è superbia. Era già cancellato dalla sua fronte il P. della superbia.
                    Dante qui dice quello che nel D. V. E. non è un gran merito, non per
                    virtù di straordinario ingegno.
                    C’è lo stesso tono che nella risposta a Cavalcante. Egli non si vanta di
                    aver più ingegno del suo amico, (che allora, quando Dante scriveva,
                    non quando immaginava di scrivere, era già morto) ma dice che a quel-
                    lo mancò ciò che si suole sprezzare; lo studio che dà la forza al poeta per
                    elevarsi. E nella seconda parte del[la] frase: «… vo significando…» c’è
                    espresso il fatto della facilità, l’immediatezza, di rendere il concetto con
                    le parole più appropriate, con divina facilità. E questa è opera di studio.
                    Questa facilità Dante esprime qui con far del poeta un copista che scri-
                    ve a dettato di un maestro. Egli la esprime più superbamente nel D.V.E.,
                    quando parla del volo dell’aquila. Come l’aquila si solleva senza fatica
                    fino alle nuvole, così uno che ha studio trova subito le parole per espri-
                    mere il suo concetto. Senza fatica!
                    «O frate, issa veggio, – disse, – il nodo che il Notaro e Guittone e me
                    ritenne Di qua dal dolce stil nuovo ch’i’odo.» Adesso vedo il nodo,
                    l’impaccio. Le loro penne non correvano dritte, non trovavano le paro-
                    le adatte a loro. Ci voleva ciò che mancò in parte a Guido C.: lo studio
                    dei grandi poeti. «Io veggio ben come le vostre penne Diretro al ditta-
                    tor sen vanno strette,» Così come D. va dietro a Virgilio senza paura
                    pei regni della colpa e della macchia; così come delle parole di Virgilio
                    l’ingegno di D. è seguace. Sicché quando voi troverete nelle poesie di
                    D. quelle che sono più popolari, più facili e così in Cavalcanti, viene in
                    mente di dire: – Lo stil nuovo è questo? No, è forse qualche cosa che ac-
                    comuna D. a Cavalcanti e al povero Bonagiunta e al Notaro etc.; qual-
                    che cosa ricalcato sugli infiniti modelli provenzali e francese innanzi a
                    loro. Per fare qualche cosa di nuovo secondo D. bisognava tornare allo
                    studio dei grandi poeti e non lasciarsi andare a scrivere ogni cosa a imi-
                    tazione degli altri rimatori volgari, che sprezzava.
                          Chi sa? Dante ha voluto significare, nella replica di Bonagiunta,
                    che il povero buon lucchese ha veduto Virgilio, ha capito chi è e per-
                    ciò issa vede, argomentando più da quella compagnia che dalle parole
                    proferite.
                    Infine un’altra osservazione. Dante non è superbo nel dire che Guido
                    Cavalcanti gli è rimasto addietro, nell’affermare che la Divina Com-
                    media è superiore alla poesia di Guido. In verità la Divina Commedia
                    trascende persino l’Eneide: infatti nelle due prime cantiche Dante è co-
                    me Enea; ma nella terza è Paolo, che va in cielo.
                    E ha lasciato la guida del poeta antico.
                                                               (Fine della 6ª lezione)

                                                56.


                                                                                131
   109   110   111   112   113   114   115   116   117   118   119