Page 292 - Lezioni di Letteratura Italiana
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ti fecero una barella improvvisata con rami di albatro: fin da allora il tricolore co-
priva un martire! (L’albatro, o corbezzolo, ha fiori bianchi, mentre maturano le bac-
che rosse, e le foglie sono sempre verdi. N.d.C.) Mille giovani furono scorta al tuo
feretro. Anche «mille» ha qualche cosa di sacro! – Egli aveva il vecchio padre che
abitava il Palatino. Era un fauno (dio silvestre favorevole al gregge). E Roma ancora
non era. E si poteva veder sul Campidoglio e sul Gianicolo (i due monti più sacri di
Roma, dopo il Palatino, che ne fu la culla), gli avanzi di due città distrutte. Quel fau-
no, che era un re molto povero, abitava una capanna. Le sue guardie del corpo era-
no due cani. La sveglia non gli era data dalle ritorte buccine (trombe guerriere), ma
dagli uccelli, che cantavano sul culmine della sua capanna. Il fauno sparì, sparirono
le capanne, e il Palatino seguitò ad essere pascolo per le greggi e gli armenti. Quan-
do qualche pastore si aggirava in quel luogo sospettoso di lupi, trovava un antro e
vi racchiudeva il gregge. Questo antro è il Lupercale, grotta sacra, in cui la leggenda
racconta fossero allevati Romolo e Remo da una lupa che di notte s’accostava alla
grotta, sentendovi dentro gli agnelli.
Un giorno di primavera, quando tutto era in fiore e il Tevere, rigonfio dalle
pioggie invernali, correva lietamente al mare, si vide un incendio. Erano i pastori che
incendiavano le capanne: volevano mutare le capanne in sede stabile. Essi saltavano,
o per gioco o per sacro rito, le fiamme e dicevano – Fuoco, porta via queste capanne!
Vogliamo fabbricare una città che sia eterna dove tu, o fuoco, avrai stabile santuario.
Siamo stanchi di questi nidi intessuti. Non siamo uccelli, siamo lupi. –
Lupo era probabilmente il totem del popolo romano, che credeva d’aver avu-
to per progenitore una lupa o un lupo. Ma i pastori, cui dilettava la vita nomade,
rispondevano che essi non volevano una città circondata da una fossa, ma la terra
senza confini: – Siamo lupi, sì : ma vogliamo le ali dell’ aquila! –
Ma il fatto è che una mattina un aratore faceva un solco quadrato ai piedi del
Palatino, con l’aratro a cui erano aggiogati un toro e una vacca. Attorno, coperti di
pelli di agnelli, erano i futuri cittadini. Gli altri, che volevano fare vita errabonda, si
ridevano di ciò. C’era anche il fratello dell’ aratore, che irrideva il contadino fratel-
lo. Nel frattempo scese un’ aquila come a vedere e poi s’immerse nel cielo. In questo
modo, il vomere dell’aratro, più splendente della spada, s’addentrava nella terra. E il
Tevere chiamava a sé i pastori – O voi, che con l’adunco rostro tagliate la terra , ren-
dete alla nave la prua che gli avete tolta; navigate me fino al mare: vi tornerà conto! –
Così diceva, con lungo mormorio, il Tevere; e questo è per affermare che il
Tevere deve essere reso navigabile fino al mare.
Intanto il vento primaverile veniva dal mare dicendo: – O voi, pastori, che
fabbricate una città , l’ostia (= porta, in latino, che pel Poeta ricorda Ostia. N.d.c.)
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