Page 252 - Lezioni di Letteratura Italiana
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Ingiuria è il fine, ed ogni fin cotale. O con forza o con frode altrui contrista. (Inf.
               XI 22-24).
               E le bestie, nel loro impeto violento, non hanno fine; sono guidate dall’istinto.
               Dunque, è un peccato che ha l’elemento umano, ossia la volontà e l’elemento bestia-
               le, ossia l’anima sensitiva, comune alle bestie.
                     Questi violenti, o bestiali, possono avere commesso il loro atto o di violen-
               za o di bestialità contro gli uomini, contro sé, contro Dio; quindi tre divisioni del
               peccato. Contro gli uomini, sono i predatori, i ladroni di strada, i tiranni «Che dier
               nel sangue e nell’aver di piglio» (Inf. XII 109); contro sé, i suicidi; contro Dio, i be-
               stemmiatori, gli uomini che hanno stortamente usato i loro sensi, ossia che hanno
               peccato contro natura, figlia di Dio, e infine, gli usurieri o usurai, che agirono contro
               il nostro dovere, che è quello di operare e di riconoscere il sostentamento del lavoro.
               Per Dante, non c’è altra via; e questo operare egli lo chiama arte e l’arte è figlia della
               natura, quindi nipote di Dio.
                     Hanno, queste tre ultime specie di peccatori contro Dio, contro sé, contro
               l’arte, fatto un triste atto di ribellione al Creatore, che li beneficò della vita ed essi
               lo bestemmiarono ferocemente e stolidamente; contro Dio che ingiunse loro di cre-
               scere e di moltiplicarsi ed essi non vollero; contro Dio che disse loro: Lavorate e ca-
               vate il vostro pane dal sudore della vostra fronte; ed essi dissero: No. Vogliamo che
               questi denari ci mantengano dandoli a lavorare ad altri. – Voi vedete che Dante era
               socialista, a suo modo.
                     Questo cerchio, popolato da tali peccatori e guardato da tali bestie semiferi-
               ne e semiumane, è tutto pervaso dal fuoco; perché in questa violenza c’è l’ira ferocia
               che si rappresenta bene col fuoco. Difatti, i peccatori contro il prossimo sono messi
               a bollire in un fiume di sangue bollente; i suicidi, dirò, poi, dove; nella terza parti-
               zione, il fuoco piove dal cielo in larghe falde, come la neve quando viene giù a larghi
               stracci, e incendia le membra tanto dei peccatori contro Dio, quanto di quelli con-
               tro la natura e l’arte. I primi sono a giacere, i secondi vanno continuamente; i terzi
               stanno ritti a pigliarsi questa neve di fuoco. Fuoco, dunque, nella prima e nella ter-
               za partizione. Nella seconda, non pare ci sia, perché sembra una selva. Ma ivi le ani-
               me sono chiuse entro alberi, le arpie beccano questi alberi e da essi escono gemiti e
               sospiri. Fuoco non c’è in apparenza; ma, in realtà, c’è anche lì. Infatti, la selva è tut-
               ta di tronchi senza foglie, tali che rende a noi la somiglianza di una selva devastata
               dal fuoco. Poi, quando le arpie fanno un foro nella scorza di un albero, allora – dice
               Dante – dalla scheggia rotta escono, insieme parole e sangue: «come da un tizzo ver-
               de che arso sia Da l’un de’ capi che dall’altro geme.
                     E cigola per vento che va via...» (Inf. XIII 40-42). E siccome è conti-
               nuato il beccare delle arpie, così è continua la sensazione di soffiare e di cigola-
               re e sembra, dunque, che la selva che pare abbruciacchiata, sia continuamente

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