Page 250 - Lezioni di Letteratura Italiana
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chiate, ma i condannati non possono uscirne. Sono, poi dissimili affatto in questo
               altro particolare, ché mentre i primi girano vertiginosamente, come foglie secche
               mulinate dal vento, questi stanno perfettamente immobili, serrati in una tomba. So-
               no dissimili anche più in questa altra circostanza, ché mentre i primi non fecero né
               bene né male, i sepolti fecero il bene eroicamente e gagliardamente ma la loro for-
               za e potenza d’ingegno non la riconobbero da Dio: essi credettero che con la mor-
               te tutto fosse finito, credettero che l’anima morisse col corpo e perciò sono i morti
               del regno dei morti e abitano le tombe di questa immensa necropoli, la tomba del-
               la tomba. Gli altri, invece, che non furono mai, in vita, vivi, restano, in certo modo,
               semivivi, dopo morte, tanto che Dante dice di loro che cieca fu la vita, ma vita è la
               loro nel mondo di là. Gli uni, dunque, sono i vivi del regno dei morti; gli altri sono i
               morti del regno dei morti. Ma sono in un luogo distinto dai peccatori più felli e più
               maliziosi, che popolano l’orribile città. I due poeti, veduta questa necropoli, e, in es-
               sa, il più grande dei Fiorentini del tempo di Dante (Farinata), scendono nell’Infer-
               no vero della malizia. Sono, in questa città o inferno, tre gironi distinti, a loro volta,
               in altri cerchietti o circuizioni. Nel primo di essi i due Poeti vedono in diverse parti,
               a guardia e a punizione dei condannati, bestie strane, derivate anch’esse dalla mito-
               logia pagana, non dalla Bibbia. Vedono dei Centauri, mezzi uomini e mezzi cavalli,
               fiere snelle; vedono arpie mezze donne e mezze uccellacci. A guardia di tutto il cer-
               chio, sta il Minotauro, mezzo uomo mezzo toro. A dilacerare certi peccatori, sono
               cagne simili a veltri, dice Dante. Quelle cagne probabilmente, sono Scille, mezze
               uomo e mezze cane. Se non fosse questa interpretazione, sarebbe difficile capire l’e-
               spressione «cagne simili a veltri»; in verità, non si capisce un paragone per due cose
               uguali. Ánno (Hanno) veduto che le bestie fantastiche, mitiche, del primo cerchio,
               sono di due nature; l’una umana, l’altra bestiale. Ciò vuol dire che i peccati che ivi
               si puniscono hanno una parte umana e una bestiale. Il peccato è chiamato violenza
               e bestialità: se si considera sotto un aspetto, si chiama violenza, se si considera sot-
               to un altro, si chiama bestialità, ma, per Dante, violenza e bestialità sono il medesi-
               mo peccato. Quali sono i due elementi di questo peccato? Uno è proprio delle be-
               stie. L’anima sensitiva, l’istinto che ci spinge alla preda, al sangue come spinge alla
               preda e al sangue un leone o una bestia qualunque. E l’umano? Proprio dell’uomo
               è la ragione; ma Dante e tutti i filosofi, almeno gli antichi, distinguono la ragione
               in volontà ed intelletto. Nella violenza esso è intuitivo: non esiste la intelligenza ve-
               ra, ma la volontà di fare il male, sì. E come, mi direte, non esiste questa volontà nel
               leone che si lancia contro la gazzella? Io, checché mi pensi, devo riferire il concetto
               dei filosofi, che non ammettono volontà dove non c’è fine. Perché si abbia volon-
               tà ci deve essere un fine. Ora Dante dice «D’ogni malizia, ch’odio in cielo acquista

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