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e quelle che egli avverte come potenti energie esterne e limitative, il Caso e
          la Necessità, nomi moderni delle antiche divinità, la Fortuna e il Destino.
          Le  fonti  di Molto  rumore  per  nulla  sono  state  molto  studiate  dai  filologi
          inglesi.  Per  la  vicenda  di  Claudio  e  Ero,  una  delle  due  fonti  principali  è  la

          storia  di  Ariodante  e  Ginevra  nel  canto IV  dell’Orlando  furioso  dell’Ariosto,
          tradotto da John Harington nel 1591; una storia ripresa da vari poeti inglesi
          del  periodo,  e  anzitutto  da  Edmund  Spenser  nella  drammatica  storia  di
          Philemon e Claribell nel canto iv del secondo libro della Faerie Queene. L’altra

          fonte  è  la  storia  ventiduesima  del  primo  libro  delle Novelle  del  Bandello,
          parecchie delle quali si erano diffuse in traduzioni francesi e inglesi. L’altro
          intreccio amoroso, quello di Benedetto e Beatrice, trova materia negli scambi
          di arguzie cortesi del terzo e del quarto libro del Cortegiano di Castiglione,

          tradotto da Thomas Hoby nel 1561. La nostra commedia è un bell’esempio
          della caratteristica e abilissima combinazione shakespeariana di fonti diverse.


          Ambientazione e personaggi

          Fu  il  piemontese,  e  poi  vescovo  di  Agen  in  Francia,  Matteo  Bandello  ad

          ambientare la sua novella in una Messina di fantasia, dove il cavalier Timbreo
          di Cardona, al seguito del re Piero di Ragona, s’innamora di Fenicia figlia di
          Messer Lionato de’ Lionati, contro la quale un innamorato respinto ordisce lo
          sciagurato  complotto  che  Shakespeare  mutua,  seguito  dalle  altre  peripezie
          che finiscono bene come nell’Ariosto, e non tragicamente come in Spenser e

          in  altri.  Il  re  Pietro  di  Aragona  e  di  Sicilia  tenne  in  realtà  la  sua  corte  a
          Messina dopo i Vespri Siciliani del 1283, che furono la causa immediata del
          suo arrivo nell’isola. E il francese Belleforest lo tratta da nemico “inumano”.

          Shakespeare trasforma il vecchio re (morto nel 1285) in un principe giovane
          (vedi V, i, 117-118) e umanissimo, alle prese non con dei nemici francesi ma
          col fratello bastardo e ribelle, il cui nome anglicizza in Don John. Egli dà alla
          figlia di Leonato il nome della leggendaria Ero, amante di Leandro, nome che
          indica  naturalmente  fedeltà  in  amore  e  dedizione  sino  al  sacrificio,  e  alla

          cugina il nome indovinato e felice di Beatrice, che acquista un sovrappiù di
          ironia se lo si connette col padre Dante. In verità il cast dell’opera appare in
          qualche  modo  come  un  fantastico  spaccato  sociolinguistico  dell’Italia  in  un

          vago  periodo  prerinascimentale:  l’aristocrazia  di  provincia,  i  dominatori
          spagnoli e i giovani aristocratici di Padova e Firenze loro cortigiani e soldati,
          un frate che chissà da dove viene, e l’invenzione — ma fondata su un cliché
          popolaresco — della ronda di notte che dovrebbe esser formata da popolani
          messinesi  nella  funzione  di  sbirri  o alguaciles  spagnoli,  ma  che  il
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