Page 1192 - Shakespeare - Vol. 2
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things»,  e  cioè  «gli  uomini  si  dan  più  da  fare  a  interpretare  le  proprie
          interpretazioni che ad interpretare le cose».
          Shakespeare  ha  usato  parecchi  degli  ingredienti  canonici  della  commedia:
          amanti  che  diventano  avversari,  avversari  che  diventano  innamorati,

          imbroglioni  che  restano  imbrogliati,  finti  morti  che  risuscitano,  sciocchi  che
          danno  lezioni  ai  saggi,  giusti  che  si  fanno  ingiusti  e  poi  ridiventano  giusti,
          tutto retto e guidato, con una inconscia connivenza umana, dal vero regista
          della pièce che è la Fortuna. Ma li ha usati in modo tale che questa commedia

          ha  in  comune  con  la  tragedia  non  soltanto  i  suoi  passeggeri  momenti
          «drammatici» e la compresenza di riso e pianto, ma il senso del transitorio e
          del divenire − perché Shakespeare come Montaigne non parla mai dell’essere
          ma del passaggio − e il senso dell’umana insipienza, il senso, come diceva

          Plauto citato ancora da Montaigne (III, ix), che «Enimvero Dii nos homines
          quasi pilas habent», e cioè come Webster l’adatta nella Duchessa di Amalfi,
          che noi non siamo altro che le palle da tennis delle stelle.





          Nota al testo

          Per  le  interpretazioni  del  titolo  si  veda  la  prima  parte  della  Presentazione.
          Esso andrebbe tradotto in realtà “Molta briga per nulla”, o “Molto affanno (o

          fatica)  per  nulla”.  Ma  il  titolo  corrente,  qui  accettato,  ha  la  forte  sanzione
          dell’uso.


          Data e fonti

          La commedia fu stampata nel 1600 in una buona edizione in quarto, che fa

          da  base  alle  più  rigorose  edizioni  recenti,  inclusa  l’edizione  New  Penguin
          curata da R.A. Foakes (1968) che qui è stata seguita. Basato su questo in
          quarto è il testo che appare nel famoso in-folio del 1623. L’opera è una delle
          poche di Shakespeare che si possa datare con relativa precisione: cadrebbe

          nella seconda metà del 1598 o nei primi mesi del 1599. Si tratta di una delle
          commedie più mature e più raffinate per tecnica, da accostarsi al Sogno di
          una  notte  di  mezza  estate  che  è  l’opera  maestra  del  periodo  “comico”  di
          mezzo,  e  al Mercante  di  Venezia,  altro  capolavoro  di  quel  gruppo  che  Leo

          Salingar  ha  chiamato  delle  “commedie  problematiche”,  e  che  dal  1596  al
          1604 include anche il Mercante, Tutto è bene quel che finisce bene  e Misura
          per misura. Ma tutte le grandi commedie, come le grandi tragedie, possono
          dirsi problematiche, e tutte le commedie di Shakespeare, in verità, agitano il

          gran problema del rapporto tra la libertà rivendicata tenacemente dall’uomo,
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