Page 1189 - Shakespeare - Vol. 2
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ossimorica  è  un’ovvietà  in  tutti  i  tempi,  ma  la  sua  potenza  è  indubbia,  e
          Shakespeare la mostra con deliziosa indirezione nelle scene in cui Benedetto
          e Beatrice (V, ii; V, iv), ormai sicuri del loro amore, continuano a beccarsi, ma
          il loro spirito ha perso ogni cattiveria, non è più un’arma con cui stare sempre

          in  guardia,  ma  è  uno  spirito  nuovo,  infuso  di  serenità  e  di  dolcezza.
          Shakespeare è il primo a rappresentare a teatro questa esperienza, e Claudio
          che piange e si dispera, che è pronto a distruggere e poi a dimenticare con un
          facile  rimorso,  ci  dice  che  l’autore  non  dimentica  mai  gli  effetti  patologici,

          coatti e abietti dell’amore. Ma tant’è, la faccia abominevole della vita è l’altra
          faccia  del  suo  fascino,  e  i  mortali  hanno  ognuno  la  propria hybris,  e  in
          definitiva sono ingiudicabili.
          Grande come i tragici greci nel creare figure femminili, Shakespeare riesce a

          trasformare  con  pochi  tocchi  in  una  persona  viva  anche  quella  che  poteva
          essere, in un artista minore, e quale è stata considerata dai critici, una figura
          convenzionale, un’allegoria evidenziata dal proprio nome mitico. In realtà Ero
          ha l’ambiguità della vita. Da un lato è appunto un paradigma di fedeltà, di

          dolce  sottomissione  e  ubbidienza,  capace  di  dedizione  e  incapace  di
          risentimento per l’ingiustizia brutale del promesso sposo: una donna sempre
          disponibile  di  fronte  al  maschio  dominatore.  Ma  nello  stesso  tempo  Ero  è
          portatrice di una gran forza, quella della consuetudine, della tradizione, nella

          quale si alleano Eros pronubo e la Legge. E questo rovescia la sua passività in
          iniziativa vitale, come quando con un dolce inganno riesce a piegare la cugina
          ribelle a conformarsi alle istituzioni, alla legge del mondo. Persona viva e non
          allegoria, ella porta degnamente sulle proprie spalle il gran tema di cui si è

          detto, della morte che è vita.
          Delle aberrazioni della gioventù partecipa anche il Principe Don Pedro, anche
          lui  volubile,  superficiale,  facile  a  macchiarsi  sia  pure  in  buona  fede  di
          maschilismo brutale, e poi a ricredersi con altrettanta facilità dell’ingiustizia

          perpetrata su un’innocente da due machos fissati sul prestigio e sullo honor.
          Una delle scene più volutamente sgradevoli della pièce è la V, i (scorciata in
          fading,  essa  non  necessita  affatto  l’integrazione  postulata  da  qualche
          filologo): nella quasi-rissa in strada coi vecchi Leonato e Antonio, Don Pedro

          e  Claudio  oppongono  al  linguaggio  esasperato  dei  due  una  freddezza
          disumana,  e  subito  dopo  scherzano  alle  spalle  di  Benedetto,  del  tutto
          dimentichi di Ero e della sua «morte». E se qui il Principe appare indegno,
          bisogna  ripetere  che  il  suo  compagno  lo  è  davvero  fin  dall’inizio.

          Preannunziato con molti elogi alle battute della commedia, Claudio dichiara al
          suo principe l’amore che prova per Ero, non senza informarsi sulla eventuale
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